da Roberto Grandi | 5 Nov, 2018 | Cultura, Media, Politica
Gli stati fanno debiti e ai cittadini domandano prestiti. Anche cento anni fa. Le guerre costano. Prima dello scoppio, per persuadere i cittadini all’intervento. Durante, per sostenere le spese belliche. Alla fine, per ricostruire ciò che è stato distrutto.
Del marketing della guerra preventivo abbiamo già parlato su questo blog.
La mostra Guerra illustrata, guerra vissuta. La Grande Guerra a Bologna tra storia e memoria, allestita al Museo civico del Risorgimento di Bologna, presenta una raccolta di manifesti di propaganda dei prestiti nazionali.
Come detto, la guerra costa. Nella Prima Guerra Mondiale l’emissione dei prestiti si è cadenzata sulle fasi principali. La prima emissione, allo scoppio nel 1914, contava sull’entusiasmo interventista ancora caldo. Ne seguirono altre due nel 1915 e nel 1917, quando la disfatta di Caporetto mise in forse l’esito della guerra e costringeva a rimotivare gli italiani. Un prestito ulteriore è stato richiesto al termine del conflitto per finanziare la ricostruzione. La campagna di persuasione di massa non è stata né improvvisata né ingenua o poco professionale. Al contrario, il governo pianificò, utilizzando le migliori e più aggiornate tecniche di marketing già applicate ai prodotti commerciali, massicce campagne di propaganda con al centro la pubblicità. I muri delle città vennero tappezzati, come mai prima, di manifesti che individuavano ciascuno un target specifico. Le donne, nel duplice ruolo di madri, mogli, sorelle, cognate degli uomini al fronte e di responsabili dell’economia domestica. I bambini e le bambine che dovevano imparare fin da giovani a fare piccoli sacrifici per la Patria. Il restante della popolazione che doveva adattarsi a vivere anch’esso al fronte, più interno rispetto alla prima linea, ma non meno strategico par raggiungere la vittoria finale.

Gli argomenti sviluppati in tutte le campagne facevano riferimento a due motivazioni.
Una razionale e utilitaria che rispondeva alla promessa garantita dallo Stato: Prestito Nazionale in Rendita Consolidata al 5% netto.
L’altra emotiva, passionale, simbolica dove, con immagini suggestive e frasi roboanti, si creava una vera e propria estetica della persuasione a donare. Eroe positivo è il fante che, come nel manifesto del 1917 di Achille Luciano Mauzan, esce dalla trincea con il fucile in una mano, lo sguardo e l’indice sinistro dell’altra mano rivolto a noi, mentre ci dice Fate tutti il vostro dovere. Ognuno nel fronte interno vede in quel fante il proprio caro al fronte e quindi quella frase diventa un imperativo morale. E’ una immagine ricorrente nella motivazione bellica dall’inglese Your country needs You, allo zio Sam statunitense di James Flagg I want you for the U.S. Army. Un altro attore positivo e centrale nella strategia di persuasione emotiva è la presenza allegorica dell’Italia. Ancora Mauzan la pone al centro, con l’ala a sinistra e la bandiera a destra, mentre brandisce la spada. Nella parte inferiore del manifesto mani, che rimandano ai vari ceti sociali, che sottoscrivono il giuramento alla patria: e nostro torni quel che fu già nostro. Un’altra presenza coinvolgente nei manifesti è l’infanzia. Bambine e bambini cui si chiede di rompere il salvadanaio per la vittoria. Oppure visi di fanciulli disperati che ti guardano pronunciando una frase che agisce come un impegno morale ineludibile: Nostro padre ha dato la vita, voi non negherete il denaro. Sottoscrivete. A volte soltanto evocato, a volte rappresentato con parole o immagini è presente anche il nemico. Come nel manifesto di Capranesi dove l’Italia, con tanto di scudo e corazza romani affronta il barbaro invasore.

Queste immagini interpellavano gli italiani non soltanto dai muri delle città, ma durante le attività quotidiane quando capitava spesso di imbattersi in opuscoli, cartoline illustrate, manifestini collocati in spazi privati e pubblici e su tutti i mezzi di trasporto.
Oggi anche nei paesi in cui guerre guerreggiate non sono presenti rimane la necessità dei governi di fare ricorso a prestiti fiduciari che sono promossi con strategie che si declinano ancora sull’equilibrio tra motivazioni razionali e utilitarie, da una lato, e simboliche ed emotive, dall’altro.


da Roberto Grandi | 5 Ott, 2018 | Intervista, Media, Politica
WhatsApp facilita l’espressione delle opinioni politiche rispetto a piattaforme sociali quali Facebook e Twitter, dove prevale una forma di autocensura. Specialmente da parte di chi è più informato, dei giovani e di chi ha opinioni estreme. Di questi comportamenti e delle implicazioni per la qualità del dibattito politico contemporaneo ne parliamo con Augusto Valeriani, docente all’Università di Bologna. Valeriani ha pubblicato su Information Communication & Society con Cristian Vaccari, docente alla Loughborough University, il saggio “Political talk on mobile instant messaging services: a comparative analysis of Germany, Italy, and the UK”.
In questo testo sono raccolti i risultati di una ricerca comparata su come le persone parlano di politica sui servizi di messaggistica istantanea quali WhatsApp, Messenger o Snapchat.
Quali sono le caratteristiche principali dei servizi di messaggistica istantanea come WhatsApp e in che cosa l’esperienza di questi servizi si differenza da quella dei social media come Facebook?
Tutti gli studi che si sono concentrati sugli utilizzi che le persone fanno di questi servizi e sulle percezioni che gli utenti hanno di questi ambienti hanno evidenziato che i mobile instant messaging service (che chiamiamo per brevità MIMS) come WhatsApp e Messenger sono considerati dai loro utilizzatori spazi più privati e protetti rispetto ai social media come Facebook, Twitter o Instagram. I social media sono piattaforme digitali in cui gli utenti sperimentano quello che è stato definito il “collasso dei contesti sociali”, perché devono gestire la propria immagine—il proprio self se vogliamo usare un termine maggiormente sociologico—in un ambiente relazionale in cui si incontrano simultaneamente con tutta la loro rete sociale digitale. I MIMS al contrario consentono di ricreare separazioni, “small boxes” per dirla con Barry Wellman, tra le molteplici dimensioni pubbliche e private del self. Per questo vengono percepiti come un’alternativa alla modalità di comunicazione broadcast che caratterizza Facebook o Twitter e che può potare alcuni utenti dei social media a rinunciare a pubblicare alcuni contenuti.
Quanto è diffusa la conversazione politica tra gli utenti di questi servizi?
Lo studio condotto da Cristian Vaccari e da me è realizzato attraverso survey online (questionari autocompilati attraverso supporti digitali) con campioni rappresentativi degli utenti di internet in Italia, Gran Bretagna e Germania. Dall’analisi dei dati emerge che l’83% dei nostri intervistati italiani utilizza i servizi MIMS e tra questi il 28% pubblica contenuti politici su queste piattaforme, allo stesso modo il 27% ha utilizzato questi servizi per intrattenere conversazioni politiche. Sono invece utenti MIMS il 55.4% degli intervistati inglesi e il 38% di questi pubblica messaggi politici, mentre il 33% discute di politica attraverso questi servizi. Infine il 62% dei tedeschi utilizza i MIMS e il 22% pubblica contenuti politici mentre il 25% discute di politica utilizzando queste piattaforme. Quello che emerge insomma è che mentre esistono differenze nella diffusione di WhatsApp e simili nei tre paesi, percentuali piuttosto alte (almeno un utente su quattro) e tendenzialmente comparabili di utenti utilizzano questi servizi per compiere azioni espressive di natura politica.
La nostra analisi ha anche rivelato che tra coloro che usano i MIMS e sono anche utenti dei social media il 51% dei tedeschi, il 51% degli inglesi, e il 43% degli italiani che hanno dichiarato di aver pubblicato messaggi di natura politica sui servizi di messaggistica istantanea non ha mai pubblicato contenuti politici su Facebook, Twitter o altre piattaforme social media. Similmente il 29% dei tedeschi, il 33% degli inglesi, e il 34% degli italiani che chattano di politica sui MIMS non si sono mai addentrati in conversazioni politiche sui social media. A nostro avviso questi dati sono estremamente interessanti perché mostrano che i servizi di messaggistica istantanea non rappresentano soltanto un’ulteriore arena di conversazione per quegli utenti dei social media che amano esporsi ed ingaggiarsi in conversazioni politiche sui social media, ma offrono anche spazio per l’engagement politico digitale a cittadini che, pur essendo utenti dei social media, per qualche ragione preferiscono evitare di esternare le loro opinioni politiche su Facebook, Instagram o simili.
Che profilo hanno dunque gli utenti che più degli altri tendono ad utilizzare i MIMS per attività espressive di natura politica?
Per rispondere a questa domanda abbiamo costruito modelli di analisi multivariata che includevano variabili (caratteristiche dei nostri intervistati) socio-demografiche, relative agli atteggiamenti politici, alle diete informative e all’uso dei media digitali. Queste analisi ci hanno restituito risultati decisamente interessanti. Da una parte è emerso che coloro che sono più informati e più attivi nella conversazione politica in generale più facilmente utilizzano anche i MIMS per scopi politici, suggerendo che questi servizi rappresentano una nuova opportunità di continuare la conversazione politica per chi è già attivo. Dall’altra però abbiamo visto come i giovani e coloro che hanno un titolo di studio più basso abbiano più probabilità degli altri (a parità di altre condizioni) di utilizzare i MIMS per la conversazione politica. Considerando che generalmente queste due caratteristiche non sono associate ad un particolare coinvolgimento nel dialogo politico, sembrerebbe che questi ambienti possano favorire l’espressione politica non solo tra i soliti noti ma anche tra new comers. In ogni caso riteniamo che i risultati più interessanti riguardino il fatto che coloro che dichiarano di essersi trovati almeno una volta nella situazione di non pubblicare un messaggio politico sui social media per paura di esporsi troppo risultano essere più propensi degli altri utenti a pubblicare contenuti politici e a discutere di politica sui MIMS. Questo conferma l’idea come la natura più intima delle piattaforme di messaggistica istantanea offra un’opportunità di espressione politica digitale ad utenti che non sono del tutto a loro agio nella situazione di collasso dei contesti che caratterizza i social media. Similmente i nostri modelli mostrano che gli intervistati che dichiarano di identificarsi in posizioni ideologiche estreme (estrema destra o estrema sinistra) sono più propensi a pubblicare contenuti politici sui MIMS degli altri. Per quei cittadini che si riconoscono in idee politiche minoritarie (come accade per coloro che si autocollocano agli estremi dello spettro ideologico) i servizi di instant messaging offrono dunque luoghi protetti dove far circolare contenuti che potrebbero essere criticati, stigmatizzati, o anche sanzionati in alcuni casi (ad esempio quando contengono hate speech, razzismo etc.) se pubblicati sui social media.
Esiste una differenza tra i comportamenti in questi tre paesi?
Avevamo ipotizzato che non soltanto variabili individuali potessero spiegare una propensione ad usare i MIMS per la conversazione e l’espressione politica, ma che anche differenze di natura sistemica possano contare. In questo senso ritenevamo che aspetti collegati alla cultura politica potessero essere rilevanti. Date le caratteristiche dei servizi di messaggistica istantanea di cui dicevo prima ci aspettavamo dunque una maggior propensione all’utilizzo dei MIMS per l’espressione politica laddove, a livello sistemico, esista una maggior difficoltà rispetto all’espressione di opinioni politiche in ambito pubblico e dove ci sia una maggiore sensibilità rispetto alla privacy, anche per quanto riguarda gli orientamenti politici. In questo senso molti studi hanno evidenziato come ancora oggi, nelle aree della ex Germania Est, a seguito del famigerato regime di sorveglianza che caratterizzava il paese durante la guerra fredda, si sia mantenuta una cultura politica caratterizzata da un marcato disagio nel discutere di questioni politiche al di fuori dell’ambito privato. Le nostre analisi hanno confermato questa nostra ipotesi mostrando che, a parità di altre condizioni, tra i nostri intervistati tedeschi che si autocensurano sui social media, coloro che sono residenti in aree della ex Germania Est sono più propensi a utilizzare i servizi di messaggistica istantanea per pubblicare contenuti politici dei loro connazionali che risiedono nelle aree della ex Germania Federale. Dunque la diversa natura dei differenti ambienti digitali può favorire o scoraggiare l’espressione politica non solo sulla base di differenze individuali ma anche rispetto a variabili sistemiche, come ad esempio la cultura politica che caratterizza un paese o un’area.
Quali sono le implicazioni per la qualità del dibattito politico contemporaneo?
Riteniamo che i risultati della nostra ricerca abbiano implicazioni ambivalenti per la qualità del dibattito politico all’interno dei sistemi mediali contemporanei. Da una parte è emerso come i servizi di messaggistica istantanea come WhatsApp offrano la possibilità di esprimere le proprie idee politiche in ambienti digitali intimi e controllati anche a cittadini che non si sentono completamente a proprio agio nell’esternare le loro opinioni politiche di fronte al proprio intero e indifferenziato network di relazioni digitali. Questo può incoraggiare un maggior numero (e una più varia tipologia) di cittadini a parlare di politica e a scambiare contenuti politici attraverso internet, potenzialmente aumentando le competenze, le conoscenze e la partecipazione politica di questi cittadini. All’opposto però, discutendo di politica in ambienti così privati e controllati, gli utenti dei MIMS possono finire per auto-intrappolarsi in piccole bolle esclusive dove si confrontano soltanto con persone molto vicine a loro e dunque assai facilmente con posizioni politiche vicine alle loro, magari anche estreme (come mostrano i nostri risultati relativi all’estremismo politico). Se questo dovesse significare una riduzione delle possibilità di confronto politico con i nostri contatti con cui abbiamo legami meno prossimi a vantaggio di scambi soltanto con i nostri contatti più prossimi allora questo potrebbe anche avere implicazioni negative per la qualità della dibattito politico e della partecipazione.
da Roberto Grandi | 17 Set, 2018 | Media, Politica
L’obiettivo dei leader politici è non solo imporre le proprie priorità alla società, ma soprattutto imporre il proprio punto di vista nella definizione pubblica dei problemi attaccando, ridicolizzando, distorcendo, prevaricando, se necessario, le argomentazioni degli avversari.
Questo è evidente in tutti i paesi. La particolarità dell’Italia è che avviene, soprattutto, all’interno del governo dove i due vice presidenti del Consiglio sono in competizione tra loro per fare prevalere agende e frame diversi.
La comunicazione dei media e sui media (da quelli tradizionali a quelli digitali) ha infatti due effetti politici importanti.
Influisce sulla definizione dell’agenda politica, ossia sulla selezione delle priorità.
Influisce sul frame, ossia sul modo in cui i problemi vengono trattati e sugli schemi cognitivi che noi cittadini/elettori attiviamo quando riflettiamo su questi problemi.
Se ne parla da tempo.
George Lakoff ha affermato, già all’inizio degli anni 2000, che la comunicazione politica è principalmente una battaglia per la definizione del framing, ossia della cornice con cui gli argomenti vengono trattati. Il frame è frutto di una interazione tra media, politici e cittadini. Il politico che riesce a imporre il proprio frame è il politico che sarà più votato in quanto considerato il più adatto a risolvere i problemi che sono percepiti così come li ha descritti.
In politica c’è sempre più di un modo di affrontare un problema. Imporre il proprio punto di vista, ossia il proprio frame, è decisivo nella battaglia quotidiana di dichiarazioni, tweet, comparsate televisive, presenze sul territorio.
Quali sono i passaggi per affermare un frame?
Definizione del problema. Si determina il problema e quali siano i benefici e i costi di una certa politica pubblica e, soprattutto, come questi siano distribuiti all’interno della popolazione, indicandone i beneficiari e chi viene danneggiato. L’immigrazione può essere considerata come una questione di ordine pubblico oppure un’opportunità per creare ricchezza; una “invasione” da parte di persone diverse per cultura e abitudini oppure una necessità legata alla globalizzazione; si può sostenere che gli immigrati “portano via lavoro agli italiani” oppure che accettano occupazioni che gli italiani rifiutano. Lo sviluppo delle multinazionali del digitale come Google o Facebook può essere considerato un allargamento delle nostre possibilità e libertà oppure una nuova e pericolosa forma di controllo. Si può parlare dell’ambiente come di un fatto estetico, una risorsa economica per il turismo, un lascito alle generazioni future o un costo per le imprese.
Individuazione delle cause. Le ragioni della crisi finanziaria globale possono essere individuate nell’eccessiva regolamentazione dei mercati o nella eccessiva deregolamentazione. Il bullismo nelle scuole può essere attribuito alla negligenza delle famiglie che si allontanano dai valori tradizionali, al degrado nella morale individuale dei giovani che trascorrono il proprio tempo sui social o all’indebolimento dell’istruzione pubblica. I crimini commessi con armi da fuoco possono essere ricondotti al numero eccessivo di armi in circolazione oppure all’irresponsabilità di pochi individui che ne abusano.
Indicazione dei responsabili dei problemi. La responsabilità cambia se si riesce a dimostrare che si tratta di problemi di sistema, e in questo caso la risposta sarà politica, oppure problemi individuali e congiunturali, per i quali il rimedio più appropriato fa riferimento alla sfera sociale, culturale e personale. Di solito infatti tendiamo a interpretare i problemi in due modi. Il primo si concentra sulle responsabilità degli individui: “i poveri non hanno la determinazione necessaria per vivere nella società di oggi”. Il secondo pone l’accento sulle influenze ambientali: “i poveri non riescono a uscire dalla loro condizione perché vivono in contesti che vanificano i loro sforzi”. Quando prevale il primo tipo di framing, il ruolo della politica e dello stato è visto come secondario, anzi spesso ingiustificato e dannoso. Quando al contrario si afferma il secondo, i cittadini ritengono utile un intervento governativo, anche se comporta costi. Il dibattito sui risultati del Reddito Garantito sfiora questi due modi di individuare le responsabilità. “Una volta che otterranno il reddito garantito non faranno nulla per cercare lavoro!” “Il reddito minimo è uno stimolo per la ricerca di lavoro!”
Formulazione di giudizi morali. Una volta individuati i responsabili di un problema, si afferma che il danno da essi causato non è tollerabile e deve quindi essere rimosso. In questa fase si identificano quindi come nemici i soggetti a cui viene attribuita una valenza morale negativa. Gli scafisti che trasportano i clandestini, le Ong che aiutano i clandestini o i clandestini stessi che cercano di entrare in un paese violandone le leggi? Le famiglie che trascurano i figli o i governi negligenti verso la scuola? Gli insegnanti poco professionali e demotivati o le politiche che li hanno mortificati? I leader di paesi stranieri che massacrano le loro popolazioni o l’arroganza dei paesi occidentali che vogliono intromettersi nel destino di altre nazioni? Gli evasori fiscali o i burocrati del fisco che vessano i cittadini onesti?
Suggerimento di soluzioni. Se anche la definizione delle cause dei problemi ne prefigura i rimedi, esistono ancora alcuni margini di manovra.
Ad esempio, si possono ridurre le tasse sul lavoro o quelle sugli immobili. Si può aumentare il gettito fiscale con un innalzamento delle aliquote o con un condono. Si può presentare la regolamentazione dell’eutanasia come un’intrusione dello stato nella sfera di autodeterminazione dei cittadini o come un intervento necessario delle istituzioni per tutelare valori non negoziabili.
Per fornire ai cittadini il quadro completo che li può portare a preferire specifiche soluzioni politiche, e renderli quindi più consapevoli delle scelte, sarebbe necessario risalire a ritroso. Dalle soluzioni ai colpevoli, dai colpevoli alle cause, dalle cause alla definizione del problema.
Ma i tempi digitalizzati della politica e la logica dei media non facilitano questo processo. Il dibattito è infatti incentrato sulle soluzioni che si contrappongono le une alle altre con una retorica discorsiva ad effetto immediato che di fatto occulta il confronto sulla definizione dei problemi che le soluzioni proposte dovrebbero risolvere.
da Roberto Grandi | 5 Mar, 2018 | Politica
I vincitori sono evidenti M5S e Lega, altrettanto evidente il grande sconfitto, il PD. Penso che questa sconfitta, così clamorosa, possa essere più utile all’area del centrosinistra di una mezza sconfitta attorno a un 23/24% che avrebbe dato ancora l’illusione di potere contare e non la consapevolezza della attuale irrilevanza politica. Nel giro di 11 anni il Pd ha cambiato tre volte la propria identità.
Nasce nel 2007 sotto la leadership di Veltroni come partito moderno a vocazione maggioritaria, in grado di governare in un sistema fortemente bipolare, che –come ha detto Veltroni al Lingotto- “nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane […] ma non è la pura conclusione di un cammino” in quanto, ciò di cui “l’Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto nuovo” che unendo “le culture e le forze riformiste del nostro paese sappia superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di esse”.
Una delle condizioni perché il Partito democratico divenga il partito nuovo viene individuata allora da Veltroni nel modo di agire di chi comporrà questo partito, specialmente nell’agire di coloro che hanno militato nei partiti di origine: “Ogni giorno che passerà farà circolare e mescolare un po’ di più le nostre idee, le nostre convinzioni, il nostro modo di guardare al di fuori di noi stessi. Bisogna incrociare le storie e aprirsi. Bisogna arrivare ad una “indistinguibilità” organizzativa di ciascuno. Il Partito democratico non sarà un partito di ex. Sarà, finalmente, la casa dei “democratici”. La più bella definizione di sé che un essere umano possa dare”. Sappiamo che questo partito è rimasto, nella migliore delle ipotesi, a metà del guado e dopo la sconfitta al 33% nelle elezioni politiche del 2008 e alcune sconfitte in elezioni locali, Veltroni si dimette.
Le primarie vengono vinte da Bersani e per la seconda volta un politico di lungo corso è alla guida di un partito nuovo. Rispetto a Veltroni, il percorso di Bersani si qualifica più sul versante amministrativo che non su quello partitico, in particolare sul versante amministrativo di tradizione emiliana, che si pensava rappresentasse un marchio di garanzia non solo per gli elettori del centrosinistra. Al momento della nomina, Bersani evidenzia, in primo luogo, l’abbandono di alcuni elementi identitari che avevano caratterizzato i primi due anni di vita del Pd: l’accentuazione di una maggiore polarità attorno ai valori cattolico-popolari e socialisti, a discapito di quelli ecologisti e, soprattutto, liberali; la preferenza per i modelli della tradizione socialdemocratica europea; il passaggio da una vocazione maggioritaria in un contesto di forte bipolarità a un partito dell’alternativa, alleato con le forze di opposizione a Berlusconi (un classico della tradizione di centrosinistra degli ultimi due decenni!).
Alle elezioni del 2013, dopo avere vinto le primarie contro Renzi nel novembre 2012 e portato un milione e duecento mila persone a votare il 29 e 30 dicembre seguente per scegliere il 90% dei candidati, porta il Pd al 25% e la coalizione a sfiorare il 30%, a pari merito con un Centrodestra a trazione berlusconiana con il Popolo della Libertà a oltre il 21% e la Lega Nord bloccata al 4%. Clamorosa è l’irruzione del Movimento 5 Stelle con quasi il 26% dei voti grazie soprattutto alla campagna di Grillo che inizia nell’aprile del 2012 e che dura ininterrottamente fino al febbraio 2013.
Lo schema bipolare imperfetto della Seconda repubblica si incrina e non tutti i politici ne prendono atto.
Poi con Renzi il Pd cambia di nuovo identità e dopo il successo clamoroso alle elezioni europee nasce il cosidetto Partito della Nazione, che è contestato dalle componenti interne del Pd che rimangono feroci e inutili più di quelle della Prima repubblica. Letta, Renzi, Gentiloni passando per la disgraziata personalizzazione del Referendum che ha messo una pietra tombale sulla esperienza genziana. Con questi precedenti il Pd si è presentato alle elezioni di domenica scorsa e ha riproposto l’andamento delle ultime due tornate, perdere non meno di 5-6 punti percentuali ogni volta. Come è accaduto in precedenza ci sarà la volontà di cambiare leadership e forma partito, rischiando, la prossima volta, di arretrare un altro 5% e di scomparire.°
In una situazione in cui ormai da anni l’elettorato è volatile, pragmatico e disposto a votare di volta in volta il partito che sembra in grado di rispondere positivamente alle proprie domande (non a caso è possibile tra un turno e il successivo quadruplicare i voti, come ha fatto la Lega, o presentarsi per la prima volta e raggiungere il 26% come ha fatto M5S) è necessario fare una riflessione strategica sui valori fondanti del partito (di tutti i partiti) sulle progettualità, sui modi di essere con e accanto ai cittadini e ai propri elettori attuali e potenziali. In una parol, ripensare radicalmente la propria identità in una situazione in cui i modi di interpretare i valori e le categorie concettuali da utilizzare sono radicalmente cambiate.
La memoria va alla crisi del Partito Laburista quando alle elezioni del 1983, al termine del primo mandato di Margaret Tatcher, scese a 8 milioni e 500.000 votanti, distanziando i liberal democratici di soli 700.000 voti. La riflessione del Labour partì dalla constatazione che i propri tratti identitari – a livello valoriale, politico e simbolico – venivano percepiti dalla grande maggioranza degli elettori come superati, inadeguati e retaggio di un passato oramai finito.
Prima Neil Kinnock, poi John Smith e Tony Blair nel 1994 portarono avanti quel processo di revisione radicale nel passaggio dal Labour al New Labour che lo trasformò in un partito di governo, sotto la leadership di Tony Blair, dalla vittoria del 1997 con il 43% dei voti a quelle del 2001 e del 2005.
Ovviamente il modello del New Labour non è proponibile oggi, ma il metodo e la pazienza sì. Il Partito Laburista ha impiegato 14 anni per ridefinire in maniera credibile per gli elettori la propria identità. Nella situazione italiana, così diversa, forse non è necessario attendere tanto tempo ma è sicuramente necessaria una radicalità nelle scelte di una nuova classe dirigente (oggi difficile da individuare) e una nuova identità che parta da alcuni tratti identitari forti, come potrebbe essere un riradicamento nei territori e una riattualizzazione della interpretazione di alcuni valori fondanti di base.
da Roberto Grandi | 23 Feb, 2018 | Politica
C’è chi dice che la post-politica abbia creato una nuova figura: il post-candidato pre-dimissionario o pre-dimissionato.
Allo Speakers’ Corner di Hide Park, a Londra, chiunque può diventare oratore e parlare sui temi più diversi rivolto a chi vuole ascoltare. Non bisogna essere oratori come Marx, Lenin e George Orwell, che pure si sono esibiti allo Speakers’ Corner, per avere un pubblico di uditori, spesso polemici.
Ogni città ha il suo Speakers’ Corner, talvolta sono angoli di piazze, altre volte gli interni di bar o altri spazi pubblici.
Vagando in questi giorni tra piazze e bar sono emersi diversi stili di orazione sui contenuti della politica nelle imminenti elezioni.
Alcuni temi e modi sono quelli della propaganda esplicita per un partito, altri dell’attacco contro certi partiti, ma soprattutto contro certi candidati, altri ancora sono gli oratori del “io non sono…ma” e poi giù una sequela di giudizi negativi sugli immigrati, gli omosessuali, i barboni, chi non fa le multe e chi fa le multe, chi telefona con il cellulare, chi si scorda il cellulare a casa e così via.
Quest’anno nei discorsi sulla campagna elettorale serpeggiano commenti che condividono sorpresa per alcune stranezze.
Con un tono ironico, per esempio, ho sentito parlare di teatro dell’assurdo o del paradosso a proposito di candidati dimissionari o dimissionati o dimissionabili. In effetti, se riflettiamo bene, è una novità che alcuni candidati abbiano già dichiarato le proprie future dimissioni oppure che siano già stati dimessi da chi li ha presentati. Senza entrare nel merito politico della questione è effettivamente un sentimento nuovo quello dell’elettore che voterà per una lista il cui candidato non fa di tutto per convincerti a votarlo ma ha già dichiarato che si dimetterà o che la lista che rappresenta lo ha già dimissionato o che pur se dimissionato dalla lista dichiara che non si dimetterà. Ecco perché alcuni sostengono, con ironia, che la post-politica abbia creato il post-candidato pre-dimissionario o pre-dimissionato. Per non parlare, in tema di assurdo, del candidato non-candidabile onnipresente sugli schermi.
Altri sentono la “nostalgia della carta”. Senza tornare alle elezioni degli anni ’50 in cui i volantini costituivano il tappeto delle strade più trafficate serpeggia nostalgia per le grandi bacheche che tappezzavano le strade, oggi sempre meno numerose, e per i muri sui quali di notte gli attacchini dei partiti ricoprivano i manifesti degli avversari in un processo che andava avanti finche il peso dei manifesti non li faceva cadere scrostando il muro. C’è nostalgia anche per la buchetta della posta intasata dai programmi e dalle facce dei candidati. C’è chi, pur essendosi sempre lamentato della tanta carta che i partiti ti mandavano, si sente oggi abbandonato e con espressione triste e sconfortata dice che aspetta almeno il fac simile della scheda. “Se non mi mandano neppure questo, non vado a votare”. Alla faccia della politica 2.0.
Photo credits: Foto dell’Autore. Kazimir Malevic Ricostruzione dei costumi per l’opera Vittoria sul Sole (1913) Mostra REVOLUTIJA da Chagall a Malevich da Repin a Kandinsky a MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna (12.12.2017 – 13.05.2018).
da Roberto Grandi | 23 Feb, 2018 | Politica
Il controllo delle priorità su cui si incentra la campagna elettorale, sia sul piano dei programmi, sia su quello dei candidati, è fondamentale: i media e le campagne influenzano le priorità degli elettori che a loro volta tendono a valutare i candidati e i programmi sulla base degli argomenti trattati dai media (Grandi e Vaccari Come si vincono le elezioni Carrocci).

Le campagne elettorali cercano dunque di influire, attraverso i media e la comunicazione diretta dei partiti, sulle priorità degli elettori e sui loro criteri di giudizio, anche se sono limitate da tre fattori: l’orientamento preesistente dell’opinione pubblica; le caratteristiche del candidato, che tenta di attirare l’attenzione sugli argomenti sui quali è percepito più competente e gli eventi esterni, che possono spostare l’attenzione su questioni e tratti diversi da quelli enfatizzati dai candidati, come nel caso di crisi ed emergenze.
Anche in questa campagna elettorale i partiti e i candidati concentrano i propri messaggi solo sulle proposte e sui tratti personali che li possono avvantaggiare differenziandoli in maniera positiva dagli altri.
Chi si candida ha interesse a enfatizzare un certo argomento quando gli elettori approvano il suo operato in quell’area, concordano con le sue proposte e ritengono quel problema rilevante.
Chi si candida ha anche l’obiettivo di fare in modo che l’agenda politica che definisce le priorità della campagna elettorale coincida il più possibile con quanto da lui o lei proposto.
L’agenda politica è oggi sbilanciata dalla parte della coalizione di centrodestra perché, come è avvenuto già parecchie volte dal 1994, la percezione di assenza di sicurezza, la paura degli stranieri e, in positivo, “prima gli italiani” sono temi condivisi da un largo numero di elettori e rafforzati da eventi di cronaca significativi.
I temi legati ai risultati positivi dei governi degli ultimi anni e alla dimostrazione di sapere governare sono, ovviamente, quelli di chi ha governato –nel nostro caso il centrosinistra- e sono oggi condivisi da una parte oggi minoritaria di cittadini, anche perché sui media è prevalso in generale il giudizio “si, ma … si poteva fare di più”. Considerato che sempre si può fare di più sono temi che rischiano di perdere la loro forza attrattiva.
Il M5S rimane ancorato alla priorità che lo ha caratterizzato dalla nascita: la diversità dai partiti che sono tutti complici del sistema politico corrotto e inefficiente che abbiamo. La condivisione di questa priorità è elevata e stabile.
E’ un modo schematico ma non rozzo di considerare la campagna elettorale attuale: da un lato, la battaglia del centrosinistra per modificare l’agenda politica, dall’altra, quella del centrodestra per rafforzarla.
Vi sono ancora margini di manovra, considerato il numero degli indecisi.
Assisteremo quindi ad attacchi e contrattacchi per riposizionare la percezione dei vari schieramenti. Il centrosinistra –che si è presentato come “Forza tranquilla”, riprendendo lo slogan di un vincente Mitterand- dovrà darsi una iniezione di dinamismo e concentrarsi su pochi e condivisi risultati, da un lato, enfatizzare il rischio di dare l’Italia in mano a estremisti (schiacciando a destra il centrodestra e mostrandone le contraddizioni) o a incompetenti (accentuando le ingenuità e gli errori dei cinquestelle).
Il centrodestra dovrà fare credere irrilevanti le proprie contraddizioni interne (per certi versi simili a quelle della coalizione vincente, durata sei mesi, nel 1994) e se possibile utilizzarle per allargare il bacino elettorale, enumerare i limiti e gli errori dei provvedimenti dei governi di centrosinistra e demonizzare come pericolosi incompetenti i candidati pentastellari.
Il M5S dovrà, da una lato, difendere la propria diversità epurando con immediatezza chi “ha tradito il movimento”, consapevole che è un argomento entrato nella agenda elettorale, e dall’altro, rassicurare gli elettori che la governabilità non può essere frutto di inciuci pre-elettorali ma della capacità di elaborare un programma aggregativo da parte del partito di maggioranza.
L’agenda elettorale ha una sua rigidità, in quanto frutto della stratificazione delle priorità nel tempo, ma presenta anche alcune possibilità di venire modificata durante la campagna elettorale se vengono individuati i suoi punti di debolezza.
Photo credits: Foto dell’Autore. Museo Civico Medievale Bologna