Mummia oltre le bende

Mummia oltre le bende

Assistere in diretta dal vivo alle operazioni di restauro tessile di una mummia egiziana non è una esperienza che si può fare tutti i giorni. E’ possibile al Museo Civico Archeologico di Bologna nei giorni 16-18 giugno, 12- 16 luglio, 30 agosto e 3 settembre all’interno del progetto OLTRE LE BENDE: storia di un antico egiziano.

E’ una esperienza molto coinvolgente e unica, anche se non raggiunge i livelli di allegria e spettacolarizzazione dei party tenuti nei musei inglesi nell’Ottocento in occasione della apertura dei sarcofaghi egiziani.

Questo progetto riunisce biografie e istituzioni.

La prima biografia è quella della mummia, di cui si conosce poco, pur se è possibile delineare alcune caratteristiche fisiche e di stile di vita. Dapprima una TAC (effettuata presso il Dipartimento di Radiologia dell’IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna) trasportando la mummia in ospedale all’interno di un apposito contenitore sigillato, in modo da non contaminare gli ambienti ospedalieri, successivamente l’indagine dell’Istituto per lo studio delle mummie dell’Eurac Research di Bolzano.

La mummia è di sesso maschile, alta 160-163 cm, morta in età matura, tra i 50-55 anni, con una discreta conservazione dei tessuti e delle strutture anatomiche. Non è morta per un atto violento, aveva perso 13 denti, non strano per il periodo e, tutto sommato, ha portato avanti una vita agiata. Utilizzando il metodo del radiocarbonio (14C) si è inoltre scoperto che i tessuti utilizzati per avvolgere il corpo, prelevati dal sudario e dagli strati inferiori del bendaggio della mummia, risalgono all’VIII-VI sec. a.C. Il corpo è stato bendato utilizzando un ricco apparato tessile, caratterizzato da due sudari sovrapposti, presumibilmente tinti di rosso (il colorante compare solo in alcune parti, più protette dalla luce), e da bende ricavate da teli di grandi dimensioni. Si ipotizza che questi teli siano appartenuti al defunto in vita, quindi carichi, nel viaggio nell’al di là, di una forte componente emotiva. Le bende sono danneggiate. Il restauro conservativo – affidato a Cinzia Oliva, fra i massimi esperti nel restauro dei tessuti antichi – si propone di stabilizzare lo stato di conservazione, arrestando il degrado del materiale mediante la rimozione delle cause principali (polvere, agenti inquinanti, stress meccanico, deformazioni) e recuperare l’integrità del bendaggio, sia dal punto di vista meccanico che estetico e di studiare l’apparato tessile.

La seconda biografia è quella di Pelagio Palagi (1775 – 1860), poliedrica figura di architetto, pittore, scultore e collezionista, che destinò per lascito testamentario al Comune di Bologna la sua straordinaria collezione di antichità egizie, greche, etrusche e romane. Pelagio Palagi acquistò questa mummia nel 1833, periodo in cui il mercato antiquario offriva opportunità di acquisto, sia per l’arrivo di consistenti nuclei di oggetti direttamente dall’Egitto sia per lo smembramento di importanti collezioni costituite nel XVIII secolo.

La terza biografia è quella di Giuseppe Acerbi (1773 – 1846) collezionistica, diplomatico e viaggiatore mantovano che soggiornò in Egitto dal 1826 al 1834, ricoprendo l’incarico diplomatico di Console Generale d’Austria. Acerbi ha donato al Comune di Mantova la propria Collezione egiziana che si compone di 414 oggetti.

Queste tre biografie si intrecciano perché alla conclusione del restauro conservativo, grazie a un accordo tra Istituzione Bologna Musei e Musei Civici di Mantova, la mummia sarà trasferita per cinque anni a palazzo San Sebastiano a Mantova ad arricchire la collezione Acerbi, all’interno di un processo di riorganizzazione delle collezioni civiche mantovane. MediterraneoAntico, testata giornalistica che si occupa di storia antica e archeologia, produrrà il materiale video-fotografico che, documentando le varie fasi del restauro, sarà utilizzato sia per la ricerca scientifica, sia per informare in tempo reale il pubblico amante dell’archeologica delle varie fasi dell’intervento conservativo.

 

Beni culturali e Big Data

Beni culturali e Big Data

ENEA – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico Istituzione Bologna Musei annunciano un importante accordo di collaborazione finalizzato a ottenere un’innovativa rilevazione dati nel monitoraggio del gradimento e delle modalità di fruizione di opere d’arte in ambiti museali, attraverso la sperimentazione e sviluppo di metodologie informatiche basate su applicazioni di Intelligenza Artificiale e Big Data.

Da oltre 20 anni ENEA, ente pubblico di ricerca italiano che opera nei settori dell’energia, dell’ambiente e delle nuove tecnologie a supporto delle politiche di competitività e di sviluppo sostenibile, è impegnata in attività volte alla conoscenza, conservazione, valorizzazione e fruizione del patrimonio artistico e culturale del Paese, utilizzando competenze avanzate, tecnologie innovative, strutture di prova complesse, elevata capacità di elaborazione ed interpretazione dei risultati.


Si inquadra in questo lungo e proficuo percorso di applicazioni informatiche ad ampio spettro nel contesto dei beni culturali lo sviluppo del sistema denominato ShareArt per il quale il Dipartimento Sostenibilità dei Sistemi Produttivi e Territoriali di ENEA ha scelto come partner di progetto l’Istituzione Bologna Musei. In quanto sistema museale che riunisce un articolato e complesso patrimonio storico, artistico e culturale distribuito in 13 sedi espositive, oltre al Complesso Monumentale della Certosa, il sistema museale civico di Bologna si qualifica infatti come contesto ideale di sperimentazione e applicazione sul campo per la realizzazione di repository di informazioni eterogenee e personalizzate nelle fasi di acquisizione dati, conservazione e documentazione.


Sviluppato a partire dal 2016, ShareArt riesce a “misurare il gradimento” di un’opera d’arte attraverso la condivisione di molteplici informazioni. Lo fa non interrogando i fruitori dell’opera, bensì monitorando la registrazione nel tempo di alcuni indicatori. Una misura resa possibile dall’utilizzo delle nuove tecnologie e, più in particolare, da una tipica applicazione Big Data capace di ricavare informazioni esplorando grandi quantità di dati diversi.

La collaborazione tra ENEA e Istituzione Bologna Musei si inserisce quindi a pieno titolo in un ambito di ricerca e sviluppo, quello dei Big Data, di grande e attuale interesse per la Regione Emilia-Romagna, impegnata a realizzare un ambizioso progetto per concentrare nel Tecnopolo di Bologna una potenza di calcolo e un expertise di supercalcolo, Big Data e Intelligenza Artificiale di rilevanza internazionale.

“Attraverso una telecamera il sistema ShareArt rileva automaticamente i volti che guardano nella sua direzione acquisendo, contestualmente, una serie di informazioni relative al comportamento nell’osservazione delle opere d’arte come, ad esempio, il percorso compiuto per avvicinarsi all’opera, il numero di persone che l’hanno osservata, il tempo e la distanza di osservazione, il genere, la classe di età e lo stato d’animo dei visitatori che osservano. L’applicazione al mondo dell’arte di questo sistema, che cambiando la prospettiva rivolge la telecamera dall’opera verso il pubblico in modo che rilevi i volti che la osservano all’interno di un percorso museale, in una mostra temporanea, in una galleria o in un sito archeologico, consente di monitorare, tramite la generazione di dati oggettivi, il gradimento e la fruizione da parte dell’osservatore dell’opera e degli spazi antistanti la stessa”, spiegano i quattro esperti ENEA Stefano FerrianiGiuseppe MarghellaSimonetta Pagnutti e Riccardo Scipinotti che partecipano allo sviluppo del progetto.


Oltre a queste informazioni, il sistema ShareArt può essere utilizzato, in questa fase di emergenza Covid-19, per aumentare la sicurezza degli ambienti museali rilevando il corretto utilizzo della mascherina a protezione delle vie respiratorie e il distanziamento dei visitatori, attivando, in tempo reale, una segnalazione visiva per ricordare il rispetto delle disposizioni vigenti.


Il sistema si compone di una serie di dispositivi di acquisizione dati, oggi disponibili sul mercato a costi contenuti, che, provvisti di telecamera, raccolgono le informazioni e le inviano a un server centrale per l’elaborazione e l’immagazzinamento. Un’applicazione web consente la consultazione dei dati, consentendone un’analisi multidimensionale interattiva con tecniche OLAP (On-Line Analytical Processing).

A differenza di altri metodi di monitoraggio del pubblico dei musei, ShareArt non richiede alcuna attività da parte del visitatore né dispositivi da indossare che, agendo sul suo comportamento naturale, influenzerebbero i dati raccolti alterandoli. Inoltre, la tecnologia impiegata è compatibile con il regolamento GDPR sul rispetto della privacy perché non acquisisce né memorizza dati associabili a una persona fisica o che ne indichino la posizione geografica.

Per l’avvio del progetto a Bologna sono state individuate le Collezioni Comunali d’Arte situate al secondo piano di Palazzo d’Accursio. Nelle loro sontuose sale ambientate, un tempo adibite a residenza dei Cardinali Legati rappresentanti del potere pontificio, è possibile ammirare un ricco e variegato patrimonio di dipinti, sculture, mobili, arredi e suppellettili sedimentatosi nel tempo grazie a successive donazioni di magistrature cittadine e collezioni private.

I primi dispositivi, installati all’interno del percorso espositivo nel luglio 2020, hanno permesso di strutturare una più estesa rete di monitoraggio che, a pieno regime, andrà ad interessare complessivamente 20 opere dello stesso museo. Con tale numero significativo di 20 dispositivi, uno per ogni opera selezionata, si potranno raccogliere dati sufficienti per valutare oggettivamente il comportamento dei visitatori. L’impiego di algoritmi Big Data consentirà l’estrazione di informazioni significative mettendo in relazione la fruizione delle opere con caratteristiche dei visitatori.

Risulta evidente come i dati raccolti costituiscano un capitale informazionale molto prezioso per gli operatori museali, che possono così analizzare, con dati concreti, le modalità di fruizione delle opere esposte, evidenziando punti di forzaeventuali criticitàpossibili miglioramenti utili per ottimizzare l’esposizione delle opere stesse e il percorso di visita, misurando poi gli effetti delle azioni intraprese.
“Vi sono domande che si rincorrono tra le mura di un museo. In cosa consiste il gradimento di un’opera? Quali sono le variabili personali e ambientali che influiscono su questo gradimento? – osserva Roberto Grandi, presidente Istituzione Bologna Musei – Le risposte tradizionali sono troppo approssimative. Ecco allora che l’Istituzione Bologna Musei ed ENEA hanno considerato alcune sale delle Collezioni Comunali d’Arte come un laboratorio sul campo per approfondire le dinamiche della fruizione in presenza delle opere in relazione al contesto spazio-temporale. Non solo il modo di osservare, ma anche come si arriva all’opera, quanto la si osserva. Sono comportamenti che aiutano i curatori dei musei a comprendere meglio i comportamenti dei visitatori e i ricercatori ad approfondire le dinamiche della percezione del gradimento attraverso la raccolta e la elaborazione di un grande numero di dati. È un percorso affascinante e siamo soddisfatti di poterlo affrontare con una istituzione scientifica di eccellenza come ENEA”.

“Uno degli aspetti che ritengo importante sottolineare 
– commenta Maurizio Ferretti, direttore Istituzione Bologna Musei – è come nello sviluppo del progetto la collaborazione tra le professionalità scientifiche e tecniche di ENEA e quelle curatoriali museali dell’Istituzione Bologna Musei sia stata sempre molto fluida e facile. Credo che in ciò abbia contribuito il comune approccio razionale nei confronti delle sfide – seppure caratterizzate dai diversi settori di attività – e il comune atteggiamento di orientamento al risultato”.

 
In tutto il mondo, oggi per molti archivi, biblioteche e musei trarre vantaggio dall’enorme potenziale che l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione permette non rappresenta più una possibilità ma una necessità fondamentale per portare avanti la propria missione e garantire un futuro di conservazione e condivisione pubblica delle proprie risorse.

Si tratta di una sfida che apre una dimensione completamente nuova e inimmaginabile fino a pochi anni fa per raggiungere tanto il pubblico tradizionale quanto un pubblico nuovo. Una sfida non solo di natura meramente tecnologica ma di consapevolezza che riguarda la ragione stessa di esistere delle istituzioni impegnate nella trasmissione della conoscenza e della memoria.

Grazie alla prestigiosa partnership con ENEA nel progetto ShareArt, l’Istituzione Bologna Musei ha dunque l’opportunità di incrementare, sia sul piano quantitativo che qualitativo, le attività di raccolta dati e analisi del pubblico negli ambiti di interesse della percezione e dell’interazione verso i propri spazi e percorsi, confermando l’apertura verso gli approcci più innovativi offerti dalle tecnologie digitali in un costante orientamento al visitatore, all’accessibilità degli spazi espositivi e al miglioramento del racconto museale.

 

Uno spettro si aggira per Bologna

Uno spettro si aggira per Bologna

“Ci siamo iscritti a questa Facoltà nuova che poi non era una Facoltà, ma qualcosa di facoltativo, non capiamo bene se è roba per fighetti, o un buco dove qualsiasi sbandato poteva intrufolarsi e rifarsi la buccia.

E’ andata che siamo finiti al DAMS, e ci sembra che tutti questi anni se ne stiano lì fuori dalla porta fatti e finiti, fino a quell’anno in cui tutto successe”.

Matricola 13 (autore singolo o autore collettivo?) così introduce “Un breve manuale dadadams. Scritto al presente” Con l’intenzione esplicita di resuscitare “gli artefici caduti nell’oblio”. Un pamphlet con inedite falsità e dimenticate verità.

Nelle celebrazioni per i 50 anni del DAMS la parola è a quelli noti, che hanno frequentato il DAMS, o più spesso lo hanno solo sfiorato. Poi alla mostra No Dams si susseguono foto e video in cui sono presenti tanti volti di studenti, di cui si è persa traccia.

Matricola 13 dà voce a questi volti che narrano in maniera ironica, tragica, caustica, surreale, situazionista, dadamsiana -col corredo di testimonianze di prima mano, o anche di seconda, di ambigua attribuzione, in ogni caso sempre in bilico tra vero e verosimile- i primi anni del DAMS. Quelli dal 1971 al 1979. Gli anni della Guerra Incivile del DAMS.

Un DAMS caratterizzato da uno spreco umano debordante.

“Lo spreco di DAMS: una gioventù accattona che non gli frega di diventare commercialista.

Arte, solo arte di corpi confusi, ad arte.

Vite sprecate nella notte, dove ci si allena a stare il più svegli possibile in una città che è come una scenografia messa su da Escher, e poi al sorgere della luce cammini chilometri finché non ti viene fame, allora entri in aula con un panino, ti siedi, ti riposi, e mastichi aspettando che qualcuno ti spieghi Greimas, o anche basta Paolo Fabbri che ci guarda tutti che gli facciamo schifo ma lui sorride sempre…

E poi di nuovo la notte, una bottiglia di rosso in quattro e ancora panini, panini…giorno, piatto caldo alla mensa universitaria, merda a 500 lire.

Nessuna vita è stata sprecata meglio che nel DAMS, lì nessun studente è stato maltratto, nessun docente è stato infilzato in una vergine d’acciaio accademica. Giammai una lezione diventa fare una lezione, solo ascoltare una voce sul fondo davanti a una lavagna, drammaturgia? Semiologia? Istituzioni di regia? Che differenza fa?”

Linguaggio e pensieri ibernati per 50 anni. Risveglio. Guardarsi attorno. Sorpresa e disgusto.

“Ma voi ci avete fatto caso a quelle biografie Wikipedia, cv o altro, di gente che si vergogna di dire che ha fatto il DAMS e suonano cose del tipo ‘si è laureato in Lettere indirizzo semiotico, ha studiato con Eco’, et varie e simili. Questi qua fanno quasi sempre gli intellettuali di professione, casomai accademici. Questi/queste qua, che sfuggono all’acronimo, e vanno in giro a fare convegni, lezioni e pubblicano saggi e articoli, quando erano giovani si vergognavano anche di esserlo?”

Poi le matricole 13 si annusano, si cercano, si contano. Chi risponde e chi manca all’appello.

“Gli studenti che si sono sprecati nel DAMS dei settanta oggi sono metà morti per cattiva manutenzione e metà vivi per eccesso di ottimismo. Abbandonando tutte le posizioni mai la meta fu così vicina.

L’ha detto per tutti Matteo Guerrino “La Rivoluzione è Finita, abbiamo Vinto!”

Uno spettro si aggira per Bologna.

 

Matricola 13. Sulla guerra incivile del DAMS. 1971/1079. Modo Infoshop. Bologna. Euro 3

Uno, cento, mille Dams

Uno, cento, mille Dams

Novembre 1971.

Inizio l’insegnamento di 60 ore di esercitazioni all’interno del Corso di Sociologia del Dams, appena nato. L’anno successivo diventano 70 ore.

Dal 1973 proseguo come docente.

Laureato nel 1970, per età e stile di vita ero sicuramente più vicino agli studenti a cui facevo lezione che ai docenti che incontravo al Consiglio di Facoltà, molti impregnati ancora di quella cultura baronale contestata ma purtroppo non sconfitta nel ‘68.

Ma con i colleghi del Dams era diverso.

C’erano quelli che già insegnavano in altri atenei e che venivano a Bologna attratti dalla sfida lanciata da Benedetto Marzullo. Grandi professionisti nel campo dell’arte, comunicazione, musica, spettacolo, stimolati intellettualmente dalla prospettiva di insegnare all’Università. Infine i più giovani che, come me, iniziavano a insegnare proprio al Dams. Ci sentivamo una comunità, impegnati in una vera e propria avventura affascinante e controcorrente: costruire un corso di laurea unendo teoria e pratica all’interno della struttura rigida e chiusa dell’Università italiana.

Per alcuni si trattava di ripensare discipline tradizionali, per altri di affrontare temi nuovi, come nel mio caso, ovvero definire il perimetro delle comunicazioni di massa. Perimetro teorico, con bibliografie scarse e perimetro di sperimentazioni pratiche che si modellavano sulle tecnologie in continua evoluzione.

Ci eravamo dati almeno tre anni per sperimentare il tragitto, possibilmente con numeri di studenti contenuti. Invece, dai 120 studenti iniziali ad oltre 1000 in un anno. Segno che il Dams rispondeva a una domanda latente e che, allo stesso tempo, la sua esistenza alimentava una domanda nuova. Il Dams, o almeno l’immagine percepita del Dams, ci stava sfuggendo perché veniva costruita principalmente dagli studenti. Quasi ogni studente, infatti, aveva in testa un Dams tutto suo, che non solo non combaciava, in larga parte, con ciò che stavamo progettando, ma che si diversificava dalla percezione che avevano gli altri iscritti. Uno, cento, mille Dams.

Già dal secondo anno dovemmo fare fronte a problemi logistici di reperimento di aule e, soprattutto, di gestione del Dams come mito, veicolato dal passa parola degli studenti e dalle testate informative che si soffermavano sugli aspetti più spettacolari e sorprendenti della sottocultura damsiana.

Mito, perché era percepito come una università-non-università. L’unico corso di laurea che insegnava discipline artistiche, sicuramente più interessante e meno noioso, con esami – si diceva – più facili da superare.

Mito, perché veniva percepito come spazio di libertà, privo di inibizioni, collocato al centro di una città percepita, specialmente da chi proveniva dal Sud, come permissiva verso quei comportamenti al bando nei paesi di provenienza.

Mito, perché si pensava che la creatività fosse il coagulo di tutto ciò che avveniva al Dams e attorno al Dams. Che questo corso di laurea ti portasse a fare della tua creatività, o presunta tale, una professione: regista, attore di cinema e teatro, fumettaro, scrittore, rock band member, poeta, artista.

Questa percezione mitica del Dams è stata per anni una potente forza attrattiva per i diplomati di tutta Italia, innestando un evidente processo di autoselezione.

In classe si percepiva immediatamente. Frequentare le aule era, per le matricole, un vero e proprio rito di iniziazione: dopo poche settimane adottavano lo stile dell’apparenza che faceva damsiano, o damsiana.

Questa immagine mitica operava non solo sugli studenti, ma su tutta la città. In questo caso come disagio e timore dei damsiani, stigmatizzati fancazzisti, brutti, sporchi e cattivi. Nell’immaginario cittadino il damsiano era il diverso, il caos incomprensibile nei comportamenti, da tenere lontano.

Questa percezione mitica riverberava anche su noi che insegnavamo al Dams. Per una parte della città e dei colleghi eravamo sperimentatori che si aggiravano in territori del sapere accademicamente poco esplorati, per altri, studiosi bizzarri che insegnavano contenuti culturalmente marginali a una massa di studenti che superava la metà degli iscritti alla Facoltà di Lettere e Filosofia, rischiando di inquinare la serietà della proposta didattica complessiva.

Il Dams, corso di laurea aperto alla realtà esterna che penetrava all’interno anche con le sue contraddizioni, come accadde nel ’77, era in ogni caso permeato di una effervescenza culturale che coinvolgeva tutti coloro che lo frequentavano: docenti e studenti che sperimentavano un modo diverso di intendere la didattica.

Iniziare il mio percorso intellettuale di docente al Dams mi ha permesso, grazie anche al confronto generoso che avevamo tra colleghi, di portare avanti ricerche che non si chiudevano nei confini di canoni disciplinari accademici ma che si muovevano più ai bordi delle discipline, per riuscire ad afferrare il senso profondo di fenomeni comunicativi di massa nel loro incessante modificarsi.

Questo è il testo che ho scritto per il libro No Dams. 50 anni del Corso di Laurea in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo (a cura di Claudio Marra e Arianna Casarini) Pendragon Editore.

 

Nella foto sto facendo un intervento alla assemblea Dams, 3 marzo 1977. Archivio Fotografico Enrico Scuro

L’arte danza al museo.

L’arte danza al museo.

Grazie al progetto Danza e Danze, curato da Vittoria Cappelli e Monica Ratti e inserito all’interno della terza edizione di Dancin’Bo, quattro sedi espositive dell’Istituzione Bologna Musei si sono trasformate in un palcoscenico d’eccezione in cui aprirsi e dialogare con il linguaggio della danza.

Gli otto video realizzati, e concessi come dono speciale, saranno diffusi su tutti i canali di comunicazione dei musei coinvolti.

 

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