Salvini ha nazionalizzato una competizione elettorale regionale trasformandola in un referendum su di sé. Questa strategia di ribaltamento ha una lunga storia nelle campagne elettorali. Fermiamoci all’Italia negli ultimi venti anni.

Un primo esempio di ‘nazionalizzazione” di una campagna regionale con voto diretto del Presidente si ebbe il 16 aprile 2000. Berlusconi, di nuovo alleato con la Lega, ribaltò il carattere regionale con una campagna incentrata sulla “Scelta di Campo” nazionale contro la Sinistra. D’Alema, Presidente del Consiglio, accettò la sfida, fidandosi dei sondaggi e sperando così di legittimare con un voto la sua Presidenza. Quindici le Regioni al voto, di cui 11 governate dal centrosinistra. D’Alema dichiarò, incautamente, che avrebbe vinto 10 a 5 o addirittura 11 a 4. Questo referendum sui due leader finì 8 a 7 per Berlusconi. Il giorno successivo D’Alema si dimise. Subentrò il governo Amato.

Quattordici anni dopo, il 25 maggio 2014, si tennero le elezioni europee. In questo caso sia il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che Beppe Grillo snaturarono la portata europea di queste elezioni e le trasformarono in un referendum, amplificato dai media, su di loro. Si ipotizzava un testa a testa, invece il Pd di Renzi prevalse con quasi il 41% verso il M5S di Grillo al 21%.

Questa vittoria ha probabilmente indotto Renzi a personalizzare anche il successivo referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. I manuali di comunicazione politica mettono in guardia da ripetere un colpo vincente. Troppe sono le ‘variabili ambientali’ che influiscono sui risultati dei referendum personalizzati. L’esito lo ricordiamo. Renzi ottenne di nuovo il 41%, ma questa volta di fronte aveva il 59% di no. Come D’Alema sedici anni prima, il giorno successivo annunciò le dimissioni da Presidente del Consiglio.

L’ultimo esempio è fresco fresco.

Matteo Salvini, dopo l’incidente di percorso delle dimissioni balneari che non hanno provocato l’auspicata e attesa caduta del governo, è stato costretto a cercare un’altra occasione per dare la spallata a Conte, senza attendere la scadenza elettorale naturale. Le elezioni regionali in Umbria e Calabria non avevano la portata politica sufficiente per fare credere che avrebbero provocato la caduta del governo. L’appuntamento perfetto era il voto in Emilia-Romagna. Le elezioni europee avevano visto l’avanzata della Lega e l’arretramento del Partito Democratico e dei grillini anche in Emilia Romagna, che è così diventata una Regione contendibile. Salvini ha deciso di non seguire il modello vincente di Giorgio Guazzaloca che, venti anni prima, aveva conquistato il comune rosso di Bologna con una proposta di centrodestra a guida civica. La ragione è chiara. Se infatti il candidato presidente del centro destra a questa elezione fosse stato un civico centrista, sarebbe stato impossibile per Salvini nazionalizzare l’elezione trasformandola in un referendum su di sé e, come effetto riflesso, contro il governo. Definire la strategia significa fare una scelta e rimanervi fedele per tutta la campagna. E’ ciò che Salvini ha fatto. Tutto deriva da questa scelta, imposta ad alleati in parte riottosi ma subalterni. Conseguente è stata la scelta di una candidata della Lega, Lucia Borgonzoni, con cui costruire un gioco di squadra in cui ciascuno aveva un ruolo. Mediaticamente preminente quello di Salvini che, forte dei sondaggi, ha fatto due mesi di campagna intensa, on line e off line, per nazionalizzare e personalizzare al massimo le elezioni regionali. Da questo punto di vista Salvini ha avuto successo e tutti i media hanno contribuito a dipingere questa elezione come un referendum su Salvini e sul destino del governo Conte. Questa scelta di Salvini ha indotto il centrosinistra a fare l’unica scelta possibile. Accettare sì la sfida della personalizzazione, accompagnata però a una deideologizzazione e regionalizzazione del voto. Da ciò è conseguita la campagna tutta incentrata su Stefano Bonaccini quale buon amministratore che chiede il voto non a nome dei partiti, ma per quello che aveva fatto e la competenza che aveva messo in campo. Da una parte, la nazionalizzazione della campagna elettorale, dall’altra la sua regionalizzazione. Su questi binari si sono instradate le campagne parallele di Salvini e Bonaccini (con Lucia Borgonzoni meno mediaticamente esposta) che hanno battutto palmo a palmo la regione. Questo modello di campagna elettorale è stato a un certo punto messo alla prova dalla presenza di un terzo attore imprevisto, anche nei manuali. Il movimento della sardine che, dal punto di vista della strategia di Salvini, ha depotenziato

il ruolo centrale di vicinanza al popolo attribuito alle piazze piccole, medie, grandi che riempiva con una regolarità, amplificata anche eccessivamente dai media. On line e off line dominati da Salvini che ogni sera aveva prenotato il suo spazio sui notiziari nazionali. Da un certo momento in avanti, però, le piazze di Salvini sono diventate, anche mediaticamente, le piazze di Salvini e delle sardine. Paradossalmente Salvini ha contribuito a consolidare il ruolo delle sardine come movimento che proponeva un linguaggio e valori contrapposti al suo modo muscoloso di fare campagna elettorale. Salvini non era più il padrone televisivo delle piazze, ma doveva accettare una coabitazione. Ai servizi televisivi dedicati alla presenza di Salvini in strada si accompagnavano servizi sulla presenza delle sardine negli stessi luoghi. A volte più numerose. La strategia di Salvini doveva mantenere una propria coerenza anche perché era tardi per qualsiasi cambiamento. Gli ingranaggi rodati e routinari della campagna permanente salviniana erano stati pensati contro i partiti e i suoi esponenti, non contro un soggetto ibrido e sfuggente come le sardine e un candidato che enfatizzava più tratti civici che partitici. E’ come se grumi di sabbia si fossero inseriti in un ingranaggio rodato che ha cominciato a fare qualche giro a vuoto. Salvini ha quindi deciso di spingere ancora di più, di stressare la macchina della propaganda estremizzandone ulteriormente i contenuti e, soprattutto, le modalità di comunicazione. In politica è noto che a una sollecitazione si hanno sempre delle risposte. Bisogna prevedere con certezza che le risposte positive di adesione e mobilitazione non superino quelle di rifiuto e contrapposizione. Bisogna evitare che le azioni creino degli anticorpi imprevisti. Questo è ciò che accade specialmente nelle elezioni trasformate in un referendum, in cui uno solo vince. Si va a votare a favore di un candidato e si va a votare anche contro un candidato.

L’esito delle urne ci ha detto che Salvini con la sua campagna ha sì mobilitato il proprio elettorato ma ha anche, contemporaneamente, contribuito a mobilitare un elettorato motivato dalla necessità di fermarlo. Bonaccini con la sua campagna ha mobilitato un elettorato più ampio di quello dei partiti che lo hanno appoggiato e ha usufruito anche del voto contro il ‘pericolo salviniano’.